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CULTURA&SPETTACOLO

Intervista a Marcello Cardillo il jazzista napoletano che incanta New York di Giovanni Spinazzola

27 Aprile 2023 09:28 —

Da Napoli alla conquista di New York, passando per Amsterdam. È Marcello Cardillo, napoletano purosangue, uno dei talenti più cristallini del panorama italiano che, purtroppo, il nostro Paese può ammirare solo da lontano. La musica nel sangue, la batteria nel Dna, trasmessa dal padre e poi tanto studio, lavoro ed applicazione, la voglia di arrivare in alto e lasciare l’Italia da giovanissimo per specializzarsi e conquistare il mondo intero. Il 14 Aprile è uscito su tutte le piattaforme streaming il suo nuovo lavoro discografico “Retrospective”, un appuntamento imprescindibile per gli amanti del jazz. Una serie di concerti in giro per il mondo e l’ambizione giusta di chi vuole conquistare il mondo. La redazione de “I Fatti di Napoli” l’ha intervistato in esclusiva per conoscerlo più da vicino e, soprattutto, per accendere un focus su uno dei tanti napoletani che si mettono in luce lontano dai confini nazionali.

Com’è iniziata la tua passione per la batteria?

In famiglia si è sempre respirato musica grazie a mio padre, che suona la batteria per hobby da quando aveva 12 anni. A casa c'è una stanza insonorizzata con gli strumenti, e sin piccolo ero incuriosito. Finché un giorno chiesi ai miei di comprarmi una batteria. Non ricordo esattamente quando ho iniziato a suonare, la musica è sempre stata lì, parte integrante della mia vita, da sempre.

All’inizio era tutto un gioco per me. Suonavo in duo con mio padre, una batteria vicino all’altra e le cuffie per ascoltare la musica dall’impianto stereo. Passavamo i pomeriggi a suonare e a duettare, e intanto imparavo nella maniera più naturale possibile, seguendo le indicazioni di mio padre.

All’età di 12 anni era arrivato il momento di iniziare a studiare seriamente con un maestro ed il primo è stato Maurizio Saggiomo col quale ho studiato fino all'età di 16 anni, lui ha avuto un grande impatto sulla mia formazione, gli sono grato per gli insegnamenti che mi ha dato e che oggi cerco di trasferire ai miei allievi.

E per il Jazz?

Per me la musica non è mai stata una questione di generi, grazie alla vasta collezione musicale di mio padre che spaziava dal funk al rock, dal reggae alla musica brasiliana, cubana e jazz. Ho imparato ad apprezzare il jazz che ho poi approfondito con il mio maestro. Nonostante ciò, ho suonato in band di ogni tipo, dal rock all'hard rock, dal reggae alla fusion.

Sin dall'età di 12 anni ho partecipato a numerosi seminari estivi di jazz in giro per l'Italia. Questi mi hanno aiutato a sviluppare l'aspetto sociale della musica e ad affacciarmi ad un panorama internazionale. Fin da giovanissimo ho avuto diversi riconoscimenti internazionali, tra cui il premio "All Star 2010" della Berklee College of Music di Boston a soli 13 anni, e una borsa di studio per la Drummers Collective di New York a 14 anni.

Perché hai scelto di formarti artisticamente ad Amsterdam? E cosa ti ha regalato in termini artistici l’esperienza olandese?

Dal primo anno di liceo, ho frequentato anche il corso di strumenti a percussione presso il Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli. Sebbene studiassi musica classica, marimba, vibrafono, timpani e rullante, la mia vera passione era la batteria. A circa 17 anni, ho cominciato a cercare una scuola di musica altamente specializzata in Europa. Un'amica frequentava il Conservatorio di Amsterdam e me lo ha fortemente consigliato. Ho avuto la fortuna di avere genitori che mi hanno sempre sostenuto, capaci di pensare fuori dagli schemi e di aiutarmi a puntare in alto. Appena terminato il liceo, all'età di 18 anni, ho lasciato Napoli e mi sono trasferito ad Amsterdam per intraprendere questa nuova avventura che avrebbe cambiato radicalmente il mio futuro. Amsterdam mi ha offerto l'opportunità non solo di frequentare una struttura ben organizzata dove ho potuto imparare e condividere la mia passione con moltissimi talenti provenienti da tutto il mondo, ma mi ha anche permesso di entrare in un contesto internazionale e di suonare con grandi nomi come Vince Mendoza, John Clayton, Wycliffe Gordon, Bob Mintzer, Riccardo del Fra, Alex Sipiagin, Ben van Gelder, Jesse van Ruller e molti altri.

Da Amsterdam a New York, quali differenze ha affrontato?

La prima volta che sono andato a studiare a New York per un periodo più lungo tempo è stato da gennaio a giugno 2019 quando ho fatto uno scambio dal Conservatorio di Amsterdam alla New School di New York. Lì ho avuto la possibilità di studiare con leggende come Reggie Workman, Buster Williams, Charles Tolliver, Andrew Cyrille, Rodney Green etc. Dopo aver terminato il mio Master ad Amsterdam, ho deciso di tornare a New York, considerata la mecca del jazz, per continuare i miei studi. Sono poi stato ammesso alla prestigiosa Manhattan School of Music con una borsa di studio.

In quel periodo ho avuto l'onore di suonare con alcuni grandi nomi del jazz, come Christian McBride durante il JAS academy workshop in Colorado, Stacy Dillard, Logan Richardson, Fabrizio Bosso e molti altri.

Hai collaborato con molti artisti di fama mondiale. Che “impronta” ti hanno lasciato?

Ogni artista ha un’aura diversa, con un differente approccio alla musica. Ho imparato moltissimo suonando con ognuno di loro. Potrei scrivere intere pagine su ciascuno. Suonare con i grandi artisti è stata una grande lezione di professionalità e umiltà.

Ad esempio Christian McBride è una persona molto solare, gentile, ti fa sentire a tuo agio. Non da tante indicazioni ai musicisti, ma ascolta tutto e trasmette molta fiducia. Sa come trarre il meglio da ogni musicista.

Alcuni artisti, invece, sono più specifici riguardo a ciò che desiderano ascoltare.

Ad ogni modo, molti dei musicisti di alto livello sanno che dare fiducia spesso è più efficace di mille suggerimenti.

È una sensazione bellissima suonare con i grandi, è un’esperienza molto intima. Un grande artista sa come mettere tutto sé stesso nella musica che suona. Ti trascina su un altro livello.

Da quale artista pensi di aver imparato di più?

Non saprei, ogni artista ed ogni esperienza hanno contribuito a formare la persona che sono oggi.

Come è cambiata la tua musica nel corso degli anni?

Beh sicuramente c’è il discorso tecnico. Oggi sento che sono un batterista molto più forte di qualche anno fa. Conosco più musica, ho fatto più esperienze, ho avuto modo di lavorare di più sul mio strumento. Come compositore vale lo stesso discorso.

Non avrei saputo descrivere la mia musica prima, così come non saprei descriverla ora. Posso dirti che il mio approccio alla musica è diventato più serio col passare del tempo. Crescendo, ho acquisito una maggiore consapevolezza dell'enorme impegno richiesto per creare musica di alta qualità.

Stai facendo concerti in tutto il mondo. Cosa ti hanno trasmesso le varie culture che hai potuto sperimentare?

Uno degli aspetti che amo di più del mio lavoro è viaggiare. In ogni luogo ci sono usi e costumi diversi e culture affascinanti.

In Brasile, ad esempio, ho suonato a Rio da Janeiro al Teatro Solar de Botafogo e a Belo Horizonte al Buena Vista Jazz Festival, e da amante della musica brasiliana, sono rimasto affascinato oltre che dal luogo, il cibo, i colori e il paesaggio in sé, da come la tradizione musicale del posto sia tutt’oggi ancora così viva nella quotidianità delle persone.

Negli Stati Uniti, e in particolare a New York, dove vivo ormai da quasi 3 anni, c’è una cultura completamente diversa e allo stesso modo affascinante. Qui, la musica che si respira, a prescindere dal genere, deriva principalmente dalla tradizione afroamericana, ed è da questa tradizione che è nata la musica che chiamiamo Jazz. Essendo un amante di questa musica ho deciso di volerla vivere da vicino, ed ho avuto la fortuna di studiare con alcune leggende come Louis Hayes, Buster Williams, Reggie Workman, Charles Tolliver, Kenny Washington, Kendrick Scott, John Riley, Miguel Zenon e molti altri.

Hai da poco pubblicato il tuo ultimo disco. Cosa racconta ed a cosa ti sei ispirato per realizzarlo?

Il 14 Aprile è uscito su tutte le piattaforme streaming il mio nuovo lavoro discografico “Retrospective” in qualità di co-leader dell’omonima band Retrospective Quintet.

Oltre a me alla batteria, la band è composta da:

Nicola Caminiti al sassofono, Juan Diego Villalobos al vibrafono, Gabriel Chakarji al pianoforte e Hamish Smith al contrabasso, che sono alcuni dei giovani musicisti più forti della scena newyorkese, provenienti da diversi angoli del globo: Italia, Venezuela e Nuova Zelanda.

Questo ensemble, con il quale abbiamo vinto il DownBeat College Award, è nato nel 2020, nel bel mezzo della pandemia, quando riunendoci regolarmente come studenti della Manhattan School of Music, sotto la guida dell'artista della Blue Note records Kendrick Scott, abbiamo avuto modo di affinare un suono, una chimica e un repertorio che ha attirato l'attenzione di molti nella scena newyorkese e internazionale.

Il disco, registrato a giugno 2021, contiene 8 composizioni originali di ciascuno dei membri della band, tra le quali il mio pezzo “Falling Drop”. Il risultato è un mix di culture, colori e suoni che mostra all'ascoltatore le storie di ciascun musicista.

Cosa pensi della musica italiana e del jazz? Quanto l’Italia in questo campo è indietro rispetto ad altri paesi?

Se intendi la musica pop italiana di adesso, non l’ascolto. Perché quelle poche volte che mi capita di ascoltarla rimango deluso. Ovviamente ci sono miriadi di eccezioni. Io non credo nel discorso di “carenza di talenti” anzi credo che siamo pieni di talenti incredibili in Italia in molti campi, il problema è che purtroppo questi talenti non riescono a sbocciare come dovrebbero, come vorrebbero. Quanti cantautori ci sono in Italia che però non rispecchiano l’immagine di ciò che è considerato “vendibile” e “capitalizzabile” e quindi non godono della fama di chi invece passa il proprio tempo a rispecchiare quell’immagine invece che dedicarsi all’arte. Credo che bisognerebbe ascoltare di più con le orecchie e di meno con gli occhi, per rendersi conto della realtà.

Per quanto riguarda il jazz, credo che in Italia ci siano molti musicisti di altissimo livello e ci sono anche numerosissimi festival, soprattutto d’estate. Forse il problema principale è quello della mancanza di una scena organizzata, di un centro culturale, di una concentrazione di locali, musicisti e opportunità dove il talento dei jazzisti italiani può esprimersi e svilupparsi, come invece accade a New York. In più c’è la questione di come vengono assegnate le opportunità che ci sono... Io sono andato all’estero a 18 anni, e non vivo più in Italia da 8 anni, anche se ci torno periodicamente per fare tour e concerti, quindi non mi sento di poter parlare con piena cognizione di causa sullo stato della scena jazzistica italiana, ma so che c’è molto da poter migliorare e sono sicuro che molti miei colleghi avrebbero tanto da dire a riguardo.

Torneresti a vivere a Napoli?

Non so se tornerei a vivere a Napoli, sicuramente non nei prossimi anni. Sento di aver ancora tantissimo da imparare qui a New York, per poi poter dare un contributo significativo alla mia città.

Il mio pensiero va ai musicisti e agli organizzatori di eventi che ce la mettono tutta per continuare a diffondere musica di qualità ma che spesso purtroppo si scontrano con una realtà poco recettiva.

Quali progetti hai a breve e medio termine?

Continuerò a fare vari concerti e nuove registrazioni quest’estate. Per il resto, vorrei concentrarmi sulla mia musica e sul mio strumento, perché sento di essere sull’orlo di un cambiamento significativo, e la sua concretizzazione richiede molta pratica. Successivamente vorrei raccogliere i frutti del mio lavoro in un nuovo album da leader.

27 Aprile 2023 09:28 - Ultimo aggiornamento: 27 Aprile 2023 09:28
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