Fu sera e fu mattina: la Federazione delle Chiese Pentecostali in Italia compì venticinque anni, e qualcuno, nei sacri palazzi della politica, pensò che fosse il caso di festeggiare. Non nelle piazze, dove forse il popolo avrebbe chiesto conto del Vangelo predicato e dei segni promessi, ma nella Sala Koch del Senato, dove ogni parola rimbalza tra marmi e velluti e muore prima di arrivare al cielo.
C’era un titolo nobile, “25 anni di storia e di unità”, e c’erano gli uomini di Dio — pastori, teologi, accademici e pure qualche vescovo cattolico — che si sono seduti insieme, pacificati per un giorno, a dirsi quanto è bello stare uniti. Peccato che, guardando i numeri, l’unità sembri più una nostalgia che una conquista. Cinquantamila credenti, dicono, sparsi in quattrocento comunità: e già qui qualcuno potrebbe chiedersi dove siano finiti gli altri.
Perché a conti fatti, la geografia del fuoco pentecostale sembra essersi fermata là dove il sole scotta di più: in Campania e in Sicilia. Al Nord, invece, il fervore si è affievolito come una candela lasciata al vento della secolarizzazione. Si festeggia, sì, ma con l’aria di chi sa che il pane è poco e gli invitati sono troppi.
Il presidente, pastore Giannini, ha parlato di “unificazione del movimento” e di “radici spirituali comuni”. Parole nobili, certo. Ma basteranno a nascondere il fatto che, in un quarto di secolo, la Federazione non è riuscita a crescere se non in burocrazia e in dichiarazioni d’intenti? Forse, più che di anniversari, servirebbero esami di coscienza. Perché se il vento dello Spirito soffia dove vuole, è pur vero che non si può chiedergli di riempire vele che nessuno si cura più di spiegare.
Eppure, anche in questo rito celebrativo, c’è qualcosa di evangelico: l’umanità che continua a credere di poter edificare torri di unità, dimenticando che l’unico cemento del Regno è la carità. Si parla di leggi, di libertà religiosa, di “Carta Cosenza” — un titolo che suona più da notaio che da profeta — ma il rischio è sempre lo stesso: confondere la Pentecoste con un convegno, lo Spirito con un verbale d’aula.
Gesù, se fosse stato invitato, probabilmente avrebbe sorriso, poi sarebbe sceso in strada, tra quelli che non sanno cosa sia una Federazione ma conoscono ancora la fame di Dio. Lì, forse, avrebbe trovato più discepoli che nei corridoi del Senato.
E allora sì, auguri ai venticinque anni della Federazione. Ma prima di stappare lo spumante, varrebbe la pena chiedersi: che cosa stiamo festeggiando? L’unità dello Spirito o la sopravvivenza dell’istituzione? La crescita del Regno o la stagnazione del movimento?
Perché, come sempre accade nelle parabole, chi ha orecchi per intendere intenda — e chi ha tabelle Excel, almeno le guardi.

